Quando stai crescendo, ci sono tante cose che possono salvarti, ognuno prende una strada diversa. Nel mio caso, le luci sono state la musica e la necessità di scrivere, quella che non va mai via. Può essere meno forte, farsi sentire di meno, un giorno o l’altro tornerà a trovarti perché non ne puoi proprio fare a meno.
E ci sono milioni di fogli che svolazzano ovunque, che perdi e che ritrovi nuovamente, che butti nella stufa e poi magari te ne penti un pochino.
E poi c’è la tua lingua, il patois, perché non trovi alcun’altra lingua per scrivere, solo il patois ti permette di non raccontare bugie, sei pulita e non ti occorre girarci intorno.
Il patois è
È la lingua in cui sono nata, la mia bandiera, il mio mondo di radici e del domani. È la lingua che uso per immaginare come saranno i miei figli. Perché in quel domani tu sai già che sarà la lingua che i tuoi figli parleranno. È la lingua per bisticciare, per piangere e per sognare. La lingua dell’amore e dell’anima. Non è la lingua della tradizione e del folklore, perché il giorno che dovessi pensarlo vorrebbe dire che il patois sta morendo.
Scrivo in patois
Perché è naturale e normale che sia così, perché sento che ciò che scrivo è più vero e più forte. Se scrivo in patois posso dare alle parole il colore che voglio, ho l’intero arcobaleno a disposizione. Se scrivo in italiano non è lo stesso colore, in francese forse mi avvicino un po’ di più.
Cosa canto
I brani che compongo parlano della Valle d’Aosta, delle sue contraddizioni, di quanto la Valle d’Aosta si sia venduta e, insieme a lei, tutti noi valdostani, sciacquandoci la bocca con parole come autonomia e indipendenza.
In patois scrivo di realtà e anche d’irrealtà, di sogni, di una bianca luna che ci guarda da lassù e che ci protegge quando ci sentiamo maggiormente fragili.
In patois parlo della pioggia del mese di maggio e di quelle notti in cui il buio ricopre ogni cosa e ogni cosa rimane al buio.
In patois parlo del Covid-19 e di quelli che si è portato via, di quelli che restano.
In patois posso narrare di un corvo che è diventato simbolo di libertà.
In patois posso cantare quelle stagioni in cui la stufa brucia lentamente i giorni che mancano all’estate.
In patois scrivo di un partigiano che ha passato il colle ed ha incontrato una processione di streghe.
Perché e per chi canto
Cantare in pubblico è stata una scommessa, un caso e soprattutto una prova. Per me che ero giovane e timida, che non credevo tanto in me stessa, portare la mia voce accompagnata da una chitarra di fronte a persone che ti ascoltano e che ti guardano è stata una grande prova.
Canto per il pubblico, canto per me, perché ne ho necessità, canto perché rimangano tracce.
Cosa rimane, i sogni
Nel frattempo conservo una piccola traccia di me in questo mondo musicale con un CD che ho realizzato nel 2016. Il suo titolo è “Coéranse valdoténa : la conta di solèi que loujet fée la plodze” (Coerenza valdostana : la storia del sole che voleva fare la pioggia). Vi compaiono 13 canzoni in patois e in francese che parlano delle incoerenze valdostane, ma anche di altri temi legati al mondo delle sensazioni e dei sentimenti.
Tre donne valdostane
Ci sono tre donne valdostane che hanno segnato il mio cammino nel mondo della musica valdostana :
Magui Bétemps… grazie Magui, perché la canzone “Sensa fota de vouaillé” (Senza bisogno di gridare) l’ho scritta per te e, senza rendermene pienamente conto, anche un po’ per me ;
Lidia Philippot… grazie Madama!!! Grazie perché mi hai spiegato che non è poi così strano che, pur avendo le ali, si possa pensare di non riuscire a volare;
Maura Susanna… grazie Mauretta per avermi trascinata in questo mondo, consigliata, ascoltata e per avermi anche dato contro ogni tanto!
Grazie anche…
A chi, nel tempo, mi ha ascoltata e accompagnata durante le serate e a chi mi ascolterà;
A chi fa il mercante e vende a Roma tutti i nostro sogni e i nostri diritti ingrassandoci a dovere per annullare in noi la forza di aprire bocca e di pensare;
A chi per svegliare la Valle d’Aosta scrive canzoni e le canta senza che occorra gridare;
A chi mi ha raccontato del gelo sulle cime a combattere, dell’odore della guerra, della fame di libertà;
A chi mi ha fatto ascoltare il suono che fa il rumore del silenzio, ti rompe i timpani e nel contempo ti cura, ti scuote;
Alla mia dipendenza dalla scrittura, necessità e malattia dello scrivere, scrivere, scrivere… di getto;
A questa emozione che non passa mai, a questa paura mandata all’inferno di non essere uguale agli altri, all’importanza della diversità;
Alle pecore nere che pensano e parlano in patois, che non si fidano del folklore e portano avanti questa lingua nella loro vita, ogni giorno, perché è normale così.