Quando stai crescendo, ci sono tante cose che possono salvarti, ognuno prende una strada diversa. Nel mio caso, due luci sono state la musica e la necessità di scrivere, quella che non va mai via. Può essere meno forte, farsi sentire di meno, un giorno o l’altro tornerà a trovarti perché non ne puoi proprio fare a meno.
E ci sono milioni di fogli che svolazzano ovunque, che perdi e che ritrovi nuovamente, che butti nella stufa e poi magari te ne penti un pochino.
E poi c’è la tua lingua, il patois, perché non trovi alcun’altra lingua per scrivere, solo il patois ti permette di non raccontare bugie, sei pulita.
Il patois è
È la lingua in cui sono nata, la mia bandiera, il mio mondo di radici e del domani. È la lingua che uso per immaginare come saranno i miei figli. Perché in quel domani tu sai già che sarà la lingua che i tuoi figli parleranno. È la lingua per bisticciare, per piangere e per sognare. La lingua dell’amore e dell’anima. Non è la lingua della tradizione e del folklore, perché il giorno che dovessi pensarlo vorrebbe dire che il patois sta morendo.
Scrivo in patois
Perché è naturale e normale che sia così, perché sento che ciò che scrivo è più vero e più forte. Se scrivo in patois posso dare alle parole il colore che voglio, ho l’intero arcobaleno a disposizione.
Cosa canto
I brani che compongo parlano della Valle d’Aosta, delle sue contraddizioni, di quanto la Valle d’Aosta si sia venduta e, insieme a lei, tutti noi valdostani, sciacquandoci la bocca con parole come autonomia e indipendenza.
In patois scrivo di realtà e anche d’irrealtà, di sogni, di una bianca luna che ci guarda da lassù e che ci protegge quando ci sentiamo maggiormente fragili.
In patois parlo della pioggia del mese di maggio e di quelle notti in cui il buio ricopre ogni cosa e ogni cosa rimane al buio.
In patois posso narrare di un corvo che è diventato simbolo di libertà.
In patois posso cantare quelle stagioni in cui la stufa brucia lentamente i giorni che mancano all’estate.
In patois scrivo di un partigiano che ha passato il colle ed ha incontrato una processione di streghe.
Perché e per chi canto
Cantare in pubblico è stata una scommessa, un caso e soprattutto una prova. Canto perché rimangano tracce.
Cosa rimane, i sogni
Nel frattempo conservo una piccola traccia di me in questo mondo musicale con un CD che ho realizzato nel 2016. Il suo titolo è “Coéranse valdoténa : la conta di solèi que loujet fée la plodze” (Coerenza valdostana : la storia del sole che voleva fare la pioggia). Vi compaiono 13 canzoni in patois e in francese che parlano delle incoerenze valdostane, ma anche di altri temi legati al mondo delle sensazioni.
Tre donne valdostane
Ci sono tre donne valdostane che hanno segnato il mio cammino nel mondo della musica valdostana :
Magui Bétemps… grazie Magui, perché la canzone “Sensa fota de vouaillé” (Senza bisogno di gridare) l’ho scritta per te e, senza rendermene pienamente conto, anche un po’ per me ;
Lidia Philippot… grazie Madama!!! Grazie perché mi hai spiegato che non è poi così strano che, pur avendo le ali, si possa pensare di non riuscire a volare;
Maura Susanna… grazie Mauretta per avermi trascinata in questo mondo, consigliata, ascoltata e per avermi anche dato contro ogni tanto!
Grazie anche…
A chi, nel tempo, mi ha ascoltata e accompagnata durante le serate e a chi mi ascolterà;
A chi fa il mercante e vende a Roma tutti i nostro sogni e i nostri diritti ingrassandoci a dovere per annullare in noi la forza di aprire bocca e di pensare;
A chi per svegliare la Valle d’Aosta scrive canzoni e le canta senza che occorra gridare;
A chi mi ha raccontato del gelo sulle cime a combattere, dell’odore della guerra, della fame di libertà;
A chi mi ha fatto ascoltare il suono che fa il rumore del silenzio, ti rompe i timpani e nel contempo ti cura, ti scuote;
Alla mia dipendenza dalla scrittura, necessità e malattia dello scrivere, scrivere, scrivere… di getto;
A questa emozione che non passa mai, a questa paura mandata all’inferno di non essere uguale agli altri, all’importanza della diversità;
Alle pecore nere che pensano e parlano in patois, che non si fidano del folklore e portano avanti questa lingua nella loro vita, ogni giorno, perché è normale così.